Tappa Venticinque - da Ripalimosani a Campobasso


6 settembre 2015 

Ci incamminiamo verso Ripalimosani in anticipo, da oggi il tempo non è più una lunghezza relativa: vogliamo fare un giro del paese prima della nostra “ora X”, ieri non siamo riuscite nemmeno a visitarlo, tante le cose che sono successe. Troviamo un borgo di pietre, gatti e panni stesi nell’immobilità dell’alba successiva a una notte di festeggiamenti. È un percorso a ritroso, scendiamo anziché salire per visitarne il centro, arriviamo nel punto più basso dove si trova un crocevia di stradine tempestato di balle di fieno e resti di bevute serali. Fa uno strano effetto, ci piace anche così, da ripulire. Sembra di vivere in una bolla temporale ferma in un angolo di Medioevo. Ci perdiamo ancora un po’ tra i suoi vicoli e poi rispuntiamo nella piazza principale, quella della “scosciata” ­- credo si chiami Irma -­, quella dell’appuntamento: gruppetti di persone in tenuta inequivocabile la ravvivano in questa mattina surreale; noi aspettiamo un po’ i ritardatari, abbracciamo, salutiamo, conosciamo, sorridiamo, ci emozioniamo. Non ci aspettavamo tutta questa gente e ci sentiamo come in una grande famiglia, oggi ancora di più.


Non è facile raccontare questa giornata, non lo è per niente, perché è qualcosa di completamente diverso da tutte le altre tappe percorse, qualcosa di più complesso, perché creato da tante persone, forse una cinquantina, forse di più. Se già in sei, sette persone il cammino è diventato altro, essere un gregge rende questa transumanza inafferrabile nelle sue singolarità, troppi gli incontri paralleli che avvengono camminando insieme ed accostandosi ora all’uno, ora all’altro, troppe le storie che vengono raccontate, le vite svelate, gli sguardi carpiti. Del paesaggio non resta quasi niente, balle di fieno da scalare, l’ultimo pezzo di tratturo che a un certo punto, semplicemente, finisce. Quasi non ce ne rendiamo conto, non c’è nessun “ultimo passo” e forse è meglio così. E anche la meta, esattamente, non sappiamo quale sia. Una piazza qualsiasi di Campobasso, poi il castello, il punto più alto. Alla spicciolata i nostri compagni di viaggio tornano alle loro vite domenicali, ma restiamo comunque un bel numero fin lassù. Non riusciamo a mettere la parola “fine” e trasciniamo i minuti trascorrendoli, lasciandoli ­- semplicemente -­ andare. Come un passaggio, il nostro, in questa terra molisana.


Oggi non riusciamo a essere stanche, siamo a cento, siamo a mille. Assieme a Gianni e Sara ci arrocchiamo a casa di Antonella, ma solo quando tutti sono andati via e quelli che restano sono il nostro nuovo noi. Non più Clara e Giulia, non più quei quattro piedi con un solo cervello, ora siamo tanti, molti di più. È un pomeriggio sospeso tra i ricordi che iniziano lenti a fare fondo e le cose che non ci vogliamo perdere. Così, dopo il sempreverde spaghetto quadrato, un saluto a Domenico -­ forse unico molisano rimasto a non sapere della nostra avventura ­- ci spingiamo ancora fino a Ferrazzano a bagnarci del rosso dell’ultimo tramonto e poi in giro per Campobasso per dare alla città lo status definitivo di “arrivo”. Ma manca ancora un’intercapedine, quel distacco necessario che possa permettere a questo mese di raffreddarsi e raggiungere la giusta temperatura per essere raccontato.


Domani partiremo separate, Giulia prenderà il bus verso Roma e poi un passaggio in macchina fino a Torino, Clara andrà verso la costa col regionale adriatico. Cerchiamo in ogni modo di velocizzare i tempi: non ci piacciono i saluti, non ci sono mai piaciuti e in un mese non abbiamo ancora imparato a dire addio. Forse perché, in fondo, speriamo questo sia solo un arrivederci. Forse perché questo Molise, più di tutto, ci ha spiegato senza parole che basta poco per sapere accogliere: un immediato, spontaneo desiderio di incontrare l’altro.

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Tappa Ventiquattro - da Toro a Ripalimosani


5 settembre 2015 

Di nuovo Giulia e Clara, non più noi. Anche la nostra simbiosi è arrivata a un punto di saturazione. La stanchezza e la confidenza ci fanno reagire in maniera o troppo brusca o troppo molle, così stamattina per poco non percorriamo la strada da sole. C’è però qualcosa che è più forte, forse la strada stessa, perciò arriviamo al bar di Campodipietra insieme, avvolte in un manto di silenzio gelido. Lì chiediamo informazioni e, appena mettiamo piede sugli ormai familiari sassolini bianchi, ci chiama Antonella. È una delle ragazze che ha percorso con noi la tappa da Campobasso a Oratino. Senza darci orari, eccola arrivare assieme alla sua amica Claudia al momento giusto, al posto giusto. Iniziamo a camminare il tratturo con loro e forse è proprio questa presenza a sciogliere le tensioni che ci portiamo addosso. In un attimo è già sole, ascoltiamo dapprima, poi riprendiamo la leggerezza di sempre, anche tra di noi, tra Giulia e Clara che tornano noi
Campobasso è lì, corre sulla nostra sinistra, la nostra meta, come un monito per ricordarci che ciò che conta non è tanto l’arrivare, quanto l’andare. Lungo il tragitto ci raggiungono anche Paolo e Nicola: siamo un gruppo, ormai, un vociare indistinto di discorsi che si intrecciano. Tutto cambia, come è successo proprio da Campobasso a Oratino; in sei non c’è più spazio per contemplare assorti, per celebrare la strada con delicatezza, il rito diventa rumoroso, il ritmo più complesso. 
E poi arriva il momento che aspettavamo da tempo, da Duronia forse: Luca ci viene incontro camminando sul tratturo. Ora siamo preparate, ora è una sensazione un po’ diversa, un po’ più consapevole di ciò che accade quando ci si cammina incontro, però è ugualmente emozionante, come una cartolina, una lettera scritta da un amico di penna giunta proprio oggi. 
Luca è di origini romane, ma da quando è arrivato in Molise per lavoro se ne è innamorato e non ha più voluto andarsene via. E noi gli crediamo, eccome. Ci guida con passo veloce lungo il tratturo, sotto un ponte, poi attraversiamo la statale ­- gioco ribattezzato “l’attraversamento del pollo” - ­ mentre inizia a piovere. Arriviamo alle porte di Ripalimosani, entriamo in casa passando dal garage. Tutti e sette. E Luca, che forse si aspettava solo due ragazze, non si fa problemi ad accogliere anche i nostri compagni di viaggio. Ha un occhio di riguardo per noi e dopo un po’ ci libera dall’incombenza dell’interazione sociale, mandandoci a sistemare nella stanza che ha preparato con cura, con un’attenzione che fa invidia alla più diligente delle casalinghe: casa di Luca è essenziale, ordinata ma calda, accogliente. Il tempo di una doccia e quando torniamo in cucina Luca è solo, ci chiede se dopo tanta molisanità ci andrebbe una carbonara “alla romana”, gli rispondiamo di sì. Un po’ di riposo, poi ci lasciamo guidare in un giro del Matese a quattro ruote, dopo aver recuperato Antonella e Claudia. Anche questa montagna ci fa venire voglia di camminarla, immensa e immensamente bella, la stiamo assaggiando troppo velocemente e riusciamo a coglierne solo qualche dettaglio: attraversiamo cinquanta sfumature di verde, pascoli e mirargiocondi da perderci il fiato, scorgiamo un albero meditabondo con qualche pennellata di sangue che spezza un pendio, poi la temperatura si abbassa repentina di tanti, troppi gradi. Siamo alti come le nuvole, tant’è che ci entriamo, avvolti da una nebbia che farebbe invidia alla Pianura Padana. Proviamo anche l’emozione di fare surf sui monti: ai bordi di uno strapiombo, solo bianco davanti a noi e un vento immenso che fa piangere gli occhi.


Riaccompagniamo le due ragazze a Casalciprano e ne approfittiamo per fare una breve passeggiata in questo paesino delizioso e assaggiarne il famoso gelato dai gusti elaborati ma goderecci; un’occhiata ai murales ed è già ora di tornare, il sole ci saluta: “a domani”, diciamo alle nostre amiche. Sì, perché per la nostra ultima tappa abbiamo pensato di scacciare la malinconia invitando tutti coloro che abbiamo incontrato a percorrerla con noi, estendendo l’invito a chiunque voglia unirsi. Chissà chi si presenterà in piazza sotto la statua della “scosciata” alle otto e mezza, domani.

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Tappa Ventitré - da Campolieto a Toro


4 settembre 2015 

Breve tappa sulla provinciale, in più punti totalmente dissestata e chiusa al traffico. Ci avviciniamo subito all’imbocco di un sentiero che dovrebbe collegare Campolieto a San Giovanni in Galdo, ma l’autista del primo bus del mattino è solo l’ultima di una serie di persone che ce lo sconsigliano, impraticabile, lasciato andare da tre anni. Per strada incontriamo diversi cani, due di questi dopo averci abbaiato contro sembrano esultare e iniziano a seguirci festosi. Hanno il collare, noi cerchiamo di ignorarli ma loro sfoggiano tutta la simpatia di cui sono capaci.


Arrivate a San Giovanni in Galdo, mentre noi recitiamo le preghiere mattutine a Santa Colazione, un vigile riconosce i collari e chiama il padrone: finalmente possiamo cedere alla tentazione di accarezzarli. Dopo poco arriva Nicola, un ragazzo con cui nasce subito una stima reciproca, il quale ci invita per pranzo. Prendiamo il suo numero e proseguiamo verso Toro tra canzoni, risate e passi veloci per far finire presto l’asfalto. Poco prima di entrare in paese una grossa moto accosta di fianco a noi e, togliendosi il casco, Fernando si presenta con un “voi stasera dormite da me”. Due indicazioni e si procede. Pochi metri dopo, alle porte di Toro, si ferma anche una macchina. Scambiamo due chiacchiere con Lucio sullo sfondo dell’abbaiare di due dalmata nel giardino di fronte, lui va verso il mare e ce lo saluterà. Entriamo in paese con il sole in testa, i pensieri riarsi e la stanchezza che ci confonde: non è fatica ma saturazione di tutto ciò che è successo, di tutto ciò che sta ancora succedendo in questo viaggio “fuori rotta”. Domandiamo ad alcuni anziani seduti sui muretti: nessuna fontana a Toro e questo incrocio sembra proprio esserne la piazza centrale. Rintracciamo la moto di Fernando ma, ancora prima di raggiungerla, una signora con l’accento familiare ci invita a seguirla in casa. Se c’è una cosa che abbiamo imparato in queste settimane è affidarci. La seguiamo e basta: scopriamo che quella è proprio la casa di Lucio; ci accolgono sorella e madre e, assieme a loro, compaiono succhi, fichi, dolci appena sfornati, caciocavalli e salsicce caserecce. Questo no, ancora non l’abbiamo imparato e dopo un mese ci troviamo ancora spaesate di fronte a tutto questo dare. Ringraziamo e torniamo da Fernando che ci mostra il frutto del suo ultimo anno e mezzo di lavoro: la cucina non è ancora finita, lui e sua moglie indossano scarpe e pantaloni da lavoro, macchiati di stucco, ma quello che ci si apre davanti è un riassunto di dedizione, buon gusto e sacrificio. Un palazzo ristrutturato nei suoi colori più accesi, “un punto di accoglienza per i pellegrini” ci racconta con lo sguardo liquido Fernando, i suoi sono occhi da febbre ma non c’è delirio, solo un uomo con i piedi ben piantati a terra. Non ci guardiamo, ma sappiamo che stiamo pensando la stessa cosa: non­possiamo­accettare. 
E potremmo uscire, sederci sulle scale, elencare i pro e i contro. Potremmo analizzare l’intera situazione con quella precisione deterministica che tu, Giulia, applichi ai ragionamenti che il tuo segno zodiacale ­ ovviamente Vergine ­ richiede. O potremmo anche guardare al momento coi tuoi silenzi imbarazzanti, Clara, lasciando che il tempo faccia il suo gioco confuso, come sei solita permettergli. Ma nessuno capirebbe, perché l’ospitalità non ha niente di razionale, non risponde a un’offerta, non è causa di niente. Non vuole un effetto né ha bisogno di attese. L’ospitalità è un riflesso immediato e spontaneo, caglia le situazioni, le rapprende e dà loro una nuova forma. Si può non capire ma non si può non accettarla. Ti abbraccia, l’ospitalità. Entriamo e prendiamo possesso del nostro letto. 
Nicola arriva a prenderci che sono le due passate ma, noi, il quadrante non lo guardiamo più da un pezzo. Con lui ripercorriamo -­ in macchina -­ la strada del mattino e nemmeno la riconosciamo. Ad accoglierci, Poldo e Tom, che ormai sono di famiglia. L’uno discreto ed elegante, l’altro spavaldo e in perenne ricerca di coccole. Ci sentiamo subito a nostro agio, amici di sempre. Nicola è uno di quelli che sogna con gli occhi spalancati e le mani già sporche di terra. Con la sua ragazza e qualche amico ha deciso di fare qualcosa di bello, qualcosa di suo. Ha iniziato dalla ristrutturazione di una casa, poi la nascita dell’azienda agricola, poliedrica e attenta. Mentre ci descrive quello che sarà, aiutandosi con le braccia, noi già la vediamo attiva e funzionante. Nicola ha trent’anni. Lo guardo e penso che vorrei essere lui, mi capita di rado. Penso che vorrei avere la lungimiranza, la determinazione e quella calma, fiducia nel tempo, la speranza di riuscire.


Conosciamo anche David, occhi nerissimi e immensi, alle prese con quattro forme di primo sale. Originario di Quito, ha scelto l’Italia. Ha scelto il Molise. Anche con lui non esistono convenevoli: ci rimbocchiamo le maniche e, mentre gli uomini spostano armadi e frigoriferi, noi scoliamo la ricotta calda che affogata in un mare di spaghetti ­- rigorosamente quadrati -­ e salvia, sarà il nostro pranzo. Stiamo bene lì, il tempo vola e sono ormai le sei quando i ragazzi ci riaccompagnano a Toro. È stato lieve ma significativo, lo sappiamo senza dircelo.


Anche a Toro abbiamo una guida d’eccellenza, Vincenzo, proprietario del museo etnografico, ovvero uno di quei ripostigli pieni d’oggetti d’altri tempi che chiunque vorrebbe scovare nella propria cantina. Vincenzo è un fiume di parole, di quelle con un peso specifico denso, parole consapevoli di tanta storia e cultura, parole di un uomo che ha passione per la terra in cui vive. È sempre lui che ci accompagna tra le viuzze di Toro, quattro le principali che disegnano una X allungata per tutto il paesino. Abbiamo il tempo per uno spuntino delizioso e poi Fernando ci porta verso un altro “fuori rotta”, Pietracatella. Oggi è il giorno delle piste non battute, lasciamo che siano gli altri a fare la strada. 
Il paesino sembra delizioso, forse perché Rosario ce lo anima con passione o forse perché è il primo che attraversiamo di notte. Ce lo godiamo a metà per la stanchezza e perché domani sarà la nostra penultima tappa. E, dopo la penultima, c’è, sempre.

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Tappa Ventidue - da Ripabottoni a Campolieto


3 settembre 2015 

La stanchezza bussa sempre più forte. Lo diciamo sottovoce perché questa è anche una gara coi nostri limiti con in palio nient’altro se non una nuova, maggiore consapevolezza di noi stesse, dei nostri corpi quasi trentenni. Che non vuol dire niente ma vuol dire. Iniziamo a salire, sentiero invisibile e asfalto che dovrebbe condurre alla “stazione”. A un certo punto, un trivio di sterrati: uno sguardo e sappiamo che oggi tenteremo l’impossibile per evitare il manto stradale. Il tratturo è la nostra missione: trovarlo, seguirlo, intuirlo, inventarlo. Scopriamo da alcuni cartelli malposti di essere sul Celano-­Foggia: solo campi arati, franati, falciati. Bisogna fare attenzione a poggiare i piedi nel posto giusto per non sprofondare fino alle ginocchia nelle cicatrici di Madre Terra, rimasta ferita dal 2002 e dimenticata lì come se non fosse di nessuno. L’asfalto corre lieto a distanza di sicurezza. Sappiamo sarebbe più facile, ma ora che ci siamo non possiamo, non vogliamo tradire il tratturo. È faticoso, è difficile, a volte sembra impossibile proseguire a piedi, ma continuiamo a camminare fiduciose. È una fede religiosa ma noi qui siamo venute come San Tommaso e nelle cose ci mettiamo le mani. Anzi i piedi, fino in fondo.
La strada è appiccicosa, uno sciame di mosche sulle braccia, ragnatele sulle gambe, sole e sudore; però ci regala panorami mozzafiato, fresche aperture in cui lo sguardo può abbracciare vastità irrinunciabili, una volta sperimentate. La situazione migliora quando raggiungiamo un crinale dove imperversano ancora pale eoliche. Alcune sono ferme, altre si muovono all’impazzata quasi a voler dimostrare qualcosa che però a noi non interessa. Ce ne allontaniamo fino a perdere il sentiero. Tornare indietro? Prendere la statale? Chiedere. Le decisioni sono più difficili quando due teste sono diventate una e ­- da più di tre settimane -­ percepiscono gli stessi bisogni nello stesso momento, fanno le medesime cose, non sono più Giulia e Clara ma solo due passi che si muovono in simbiosi su di una terra nuova. Ormai usiamo il plurale, abbiamo imparato la parte a memoria. Entrambe quella di entrambe, come gli attori bravi che a teatro sanno come riempire i buchi. È un ruolo doppio, obbligato, ma che poco si addice a due collezioniste di spontaneità. Ritorniamo un poco indietro, non vogliamo la statale a meno che non sia davvero l’unica soluzione. Ritorniamo a incrociarla di nuovo e allora inventiamo passaggi tra i campi, scavalchiamo il guardrail, percorriamo per alcuni tratti la vecchia strada ormai inesistente. Franata completamente, c’era da aspettarselo. E alla fine ci arrendiamo all’asfalto in cambio delle nostre parole, mute ormai da diversi chilometri. Una macchina si ferma. Noi non lo conosciamo ma lui sì. Michele ci stava cercando per lasciarci un dono, lui che sottovoce, con qualche timidezza, ci aveva già regalato la luna, eccolo per lasciarci un altro dono, un altro cielo.


Andrea ci accoglie a Campolieto col suo sorriso buono e ci mostra la stanza dove passeremo la notte. Facciamo appena in tempo a comprare una coca e due brioches, il nostro pranzo, che gli occhi ci si chiudono. Quando ci alziamo, è Anna a farci scoprire le voci e gli intrighi del paesino, il suo, dove continua a tornare nonostante tutti i nonostante. Restiamo affascinate dal museo dei fuochi artificiali che ci racconta un angolo di storia inaspettato, gli splendori del mondo ­- anche contraddittorio -­ che apparteneva ai nostri nonni, quello che abbiamo studiato sui libri e che si allontana sempre più.


Dopo un caffè, passeggiamo per perderci, così ci imbattiamo in Franca che, sotto al porticato, sta preparando i peperoncini che passeranno l’inverno a testa in giù. Ci mostra il suo orto con orgoglio: “A noi non manca niente”. Lo pensiamo anche noi di questo Molise senza industrie, dove il Frecciarossa non si ferma e l’autostrada non è che la sola retta che passa fra due punti, Vasto Nord e Poggio Imperiale e il cibo è un’eccellenza genuina, come il paesaggio. Hai ragione Franca, non vi manca niente.

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Tappa Ventuno - da Casacalenda a Ripabottoni


2 settembre 2015 

Da oggi la sveglia suona prima, abbiamo preso troppo caldo nei giorni scorsi e ci vogliamo godere le ombre lunghe del mattino. Unico problema: niente colazione. Per fortuna abbiamo un po’ di frutta con noi. Quando imbocchiamo il sentiero indicato da Carmine, l’alba dipinge colline e paesi di un rosa caldo, che rende tutto un po’ più romantico. Un’ora dopo siamo a Provvidenti, felici di poterci fermare per onorare la nostra divinità mattutina. Incontriamo un signore che percorre i tratturi con i suoi cavalli e ci dà qualche indicazione per le prossime tappe. Mentre parliamo con lui due grossi cani curiosi vogliono simpaticamente saltarci addosso sbavando ovunque. Il signore resta impassibile, noi cerchiamo di evitarli, ringraziamo e proseguiamo. Chiediamo dove possiamo trovare un bar a una donna seduta fuori casa, i piedi sul tavolino. Immobile nel suo sorriso, risponde che non ci sono bar a Provvidenti. C’è una fontana poco più avanti, però. La lasciamo alla sua stasi mattutina e, un po’ deluse, proseguiamo. Solo asfalto: l’hanno rifatto da pochi mesi ed è già crepato in diversi punti. Ci chiediamo perché le strade non facciano altro che franare, qui. Dopo aver salutato alcune pecore interessate al nostro passaggio, dietro una collina compare d’improvviso la nostra meta, mosaico di pietra immerso nel verde.


Ripabottoni. Città bianca e rosa, come il vestito della festa, come la sposa. Un mondo in ricostruzione, a differenza degli altri paesi che dal 2002 aspettano. Le scosse grandi hanno come reazione l’immobilità totale il più delle volte, ma è strano come in natura ad azione corrisponda reazione. Siamo un po’ contente quando non ci conosce nessuno, quando possiamo solo osservare ma è difficile farci guardare e lasciare che la gente parli, fare finta di niente. Il nostro zaino ci protegge ma è pomeriggio e dopo una doccia siamo uguali a tutti gli altri, ma straniere.

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Tappa Venti - da Larino a Casacalenda


31 agosto/1 settembre 2015 

Marcello non ha quasi chiuso occhio, preoccupato per l’incidente mortale avvenuto sotto casa questa notte. Anche Valentina è sveglia, la voglia di partire ha vinto il sonno vacanziero. Mentre assaggiamo le loro marmellate davanti a un caffè, lei ci parla con gli occhi un po’ gonfi ma pieni di sole. In cammino affrontiamo subito una lunga salita, il loro passo è svelto, l’enorme luna piena gioca a nascondino nel cielo terso: siamo felici ci siano di nuovo le colline. Speriamo però non sia tutta così. Infatti dopo un po’ l’asfalto lascia spazio al brecciato e alla terra ­ più o meno ­ battuta e i pendii si fanno più dolci. Come le mele limoncelle, ormai quasi mature, che assaggiamo assieme a prugne, more selvatiche, nocciole e mandorle che Marcello apre con i sassi, come un buon papà: una gustosa seconda colazione, in compagnia di gruccioni e gru che volano incuranti del nostro passaggio. Una fontana riporta una scritta incisa nella pietra: “1927 - NON SPORCARE”. Ma in ottantotto anni l’analfabetismo sembra dilagare: è una fortuna che questi sentieri non siano molto praticati. Qualche rifiuto lungo la strada asfaltata, come al solito, come dappertutto in Italia­, poi viriamo di nuovo verso la campagna. Fa caldo, ma nella natura c’è più sollievo. E poi, come scrive Marcello, “abbiamo osservato le linee guida del Molise: i solchi della terra arata e seminata, delle stoppie di un grano che è già pane. Siamo stati in compagnia del Cigno che non è un uccello, ma anche di veri volatili. Finalmente vediamo sul monte la meta, ma non è il monte La Meta”. Sì, il sapore di questo cammino lo dà la strada, l’aroma persistente degli incontri, la profondità degli sguardi, la meraviglia dei paesaggi gustata attraverso gli occhi saturi di sudore e gioia.


Casacalenda però è al termine di una salita che spezza il fiato e le gambe. Nonostante la fatica, Marcello ha anche la forza di incitarci e scherzare: è veramente un vulcano, una “fonte”, come lo definisce Dora, ancora dopo venti anni di vita insieme. Una signora si affaccia al balcone per chiederci se abbiamo bisogno di qualcosa. No, grazie, proseguiamo fino all’ombra, dove restiamo seduti qualche minuto, poi ci rinfreschiamo al bar e scopriamo due paradisi, uno dietro l’altro. C’è un caseificio in cui assaggiamo mille prelibatezze e la regina dei sapori, una burrata ripiena di stracciatella. Giulia non resiste e, in mancanza di pane, fa scarpetta con una fetta di scamorza tartufata. Una volta a Torino, sarà il caso di controllare il colesterolo. L’altra oasi è un negozio di sapori molisani: - conserve sott’olio, vini, composte, di tutto e di più -­ dal quale ci facciamo spedire le scorte per l’inverno gianduiotto. 
Un ultimo abbraccio, poi le strade si dividono. La nostra ci porta a fermarci qui a Casacalenda, a ritrovare vie già percorse tre settimane fa, a ri­orientarci e iniziare a esplorare un po’ più a fondo questo paese. Chiediamo a qualcuno di suonarci il bufù, “domani mattina, alle dieci al bar centrale”. Una sola passeggiata e già tutti ci fanno un cenno di saluto, come se ormai fossimo del posto. Basta poco per sentirsi parte di una comunità, di una grande famiglia. Con tutto il bello e il brutto dello stare insieme, sempre. Beviamo questa sensazione come una bibita ghiacciata, a piccoli sorsi.


Rino si presenta puntuale, l’indomani. Noi siamo già al secondo caffè: il nostro orologio biologico si è sincronizzato sui tempi del cammino, anche quando ci fermiamo. Con lui e Andrea ci muoviamo verso il municipio, dove salutiamo il sindaco come vecchi amici ­in fondo, la nostra prima colazione in terra molisana ce l’ha offerta lui­ e visitiamo il museo di arte contemporanea e quello del bufù. È strano e piacevole vedere come tali opere d’arte si innestano nella pietra storica di questo paese: oltre a quelle racchiuse nel museo, infatti, alcuni artisti hanno disseminato il centro storico di sculture che gettano un nuovo sguardo sulle tradizioni locali. È ciò che fa anche Rino nel “covo dei briganti”, una vecchia cantina dove lui e il suo gruppo di musici danno vita nuova agli strumenti della loro tradizione, affiancandone altri più moderni, rivoluzionando il modo stesso di fare musica popolare e rivisitando anche molti grandi classici della musica più “commerciale”. Prepara, suona e ci fa provare il bufù; poi ci accompagna in macchina a vedere fontane, statue e ci spingiamo fino al convento di S. Onofrio nella campagna vicina a Casacalenda, mentre il CD dei Briganti salta da una canzone all’altra. È un passaporto speciale quello del viaggiatore, ci concede “quella libertà speciale che ha solo un uomo di passaggio”: il distacco dalle cose, la sfrontatezza del saper chiedere, l’accontentarsi di quello che c’è ma anche di ciò che manca. Riusciamo quindi a entrare nella chiesa in ristrutturazione. Conosciamo Fernando, il falegname che si sta occupando dei lavori, ex ferroviere in pensione che con le sue mani sta riportando in vita un armadio del 1722. Perché ne vale la pena. 
Nel pomeriggio andiamo alla ricerca di Carmine, vigile camminatore, che ci accompagna a vedere il sentiero che prenderemo domattina. Carmine è un uomo disincantato, che pensa alle cose ordinarie come straordinarie, che si accontenta di vivere in pienezza ciò che ha. È un tragitto breve, sono solo quattro chilometri nei quali però ci inoltriamo nelle profondità dell’uomo, non uno qualunque, ma del nostro esserlo: uomini. E ci raccontiamo la vita, quella sempre più scelta perché man mano che si cresce è così. Carmine ha percorso a piedi due Santiago e, appena i turni glielo concedono, va a camminare le sue colline in solitaria. Forse perché per avere a fianco un uomo come lui ci vuole il coraggio di guardarsi dentro. Solo Marcello l’ha accompagnato, una volta.

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Tappa Diciannove - da San Martino in Pensilis a Larino



30 agosto 2015 

Incontriamo Enzo dopo la colazione nella piazza davanti al palazzo baronale. Gli occhiali da sole nascondono la sua stanchezza. È tornato a casa alle quattro, stanotte, e due ore dopo è già in piedi per camminare con noi. Ci confessa di aver fatto molte volte quella strada in macchina, mai a piedi. Per lui sarà più una sfida psicologica che fisica, aggiunge, e se non coglie questa occasione, difficilmente si ripresenterà: già lo prendono per pazzo. Come al solito Giulia rompe il ghiaccio con le sue mille domande, Clara invece ascolta e aspetta che il sole sia un po' più alto interagire con il nostro compagno di viaggio. Proponiamo strade alternative, però – forse - improvvisare quando ci sono nuovi compagni di viaggio, non è la soluzione ideale. Così, ci teniamo sull'asfalto per tutta la tappa. Appena scendiamo dalla collina su cui si appende San Martino, sciami di pale eoliche si affastellano attorno a noi, in ogni ansa tra le colline. Alcune restano ferme, altre girano. Tutte si chiedono perché stiano lì. Alla base hanno una scaletta e una porticina bianche. Immagino The Truman Show: un uomo che, prima di aprire la porta della consapevolezza, saluta il suo creatore con un ironico buongiorno. "E casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buona sera e buona notte". Sogniamo anche noi di sbucare in un mondo ideale, in cui le ricche risorse di questa regione vengano conservate, tutelate, valorizzate in maniera equa e intelligente. Ma il portale che troviamo ha le fattezze di un cancello lussuoso appiccicato alla campagna, con il nulla intorno se non soldi pubblici spesi per capricci personali. Il caldo ci travolge già prima delle nove così, nonostante la strada ci avvicini ad Ururi, decidiamo di segnarlo tra i "posti che visiteremo la prossima volta" e proseguiamo in direzione Larino. Lo scooter di Giancarlo compare due, quattro volte per indicarci i chilometri percorsi e quelli che ci mancano all'arrivo. Noi sorridiamo, non ci facciamo più caso, ormai, l'importante è andare. Radio Tratturo si accende a tutto volume ai piedi dell'ultima salita, curve e pini marittimi, la cui ombra è solo un sospiro soffocato dal calore dell'asfalto. Mettiamo da parte la timidezza e proponiamo tutto il repertorio, che con Enzo si arricchisce: per la rubrica Le belle canzoni di una volta trasmettiamo una splendida esecuzione di Surfin' USA a tre voci, abbiamo addirittura il telegiornale regionale offerto dal nostro collega autoctono. L'affanno muta in risata e poco dopo arriviamo a casa di Marcello. Lui non è a casa, ma ci aprono la porta la moglie Dora, con la sua pacata serenità, che ci rinfresca con acqua e asciugamani per la doccia, e Valentina, con la timidezza educata dei suoi quindici anni e gli occhi carichi di curiosità. Conosciamo anche Angelo, il figlio maggiore, che ci lascia incantate mentre suona al tamburello una carrellata di ritmi del Sud. Marcello arriva portando con sé una chitarra. È un uomo allo stesso tempo carismatico e sensibile: le sue tasche sono piene di storie e con il suo entusiasmo sa trascinarti fin dentro il cuore delle cose. Ce ne accorgiamo al primo sguardo e ne abbiamo la conferma quando andiamo con lui a visitare il centro storico di Larino. In breve abbiamo:



  • provato a scavalcare la recinzione dei resti dell’anfiteatro

  • chiesto al buon Pietro di aprirci il museo civico per meravigliarci insieme davanti alla bellezza del palazzo ducale, della sua storia e dei mosaici lì custoditi

  • visitato la cattedrale poco prima della messa

  • fatto una foto sul trono vescovile in sagrestia, mentre stava arrivando il vescovo

  • fatto una foto con il vescovo

  • vagato per i vicoli, incontrando un gruppo di bambini, ai quali Marcello ha chiesto di cantare alcune delle sessantotto strofe di cui è composto il canto tradizionale di San Pardo.



La giornata termina con una visita a sorpresa nella cantina di Enrica e Angelo, nata con un rosso e un bianco uniti al loro matrimonio e cresciuta con cura e passione. I vini sono squisiti - persino Clara li assaggia tutti -, la compagnia è fantastica e il tempo si è fermato. Ce ne accorgiamo quando l’ora di andare a dormire, per noi, è passata da un pezzo e la luna rossa splendente si è fatta bianca.

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